Se abbiamo iniziato a meditare da un po’, avremo sentito dire più volte dall’insegnante che non cerchiamo risultati nella meditazione, non ci sono obiettivi e semplicemente stiamo con quello che c’è. Effettivamente, e in alcune tradizioni ancora più che in altre, meditiamo per allenarci a essere presenti al momento presente. La pratica è tutta qui. Semplicemente questo momento così com’è.
Eppure, come direbbe Christina Feldman, una delle mie insegnanti, non meditiamo per restare come prima; cioè non meditiamo per restare in preda a stati di ansia o stress, ma per trovare una relazione più equilibrata e gioiosa con noi stessi, con gli altri, con il mondo, meditiamo per abitare il mondo in modo sempre più responsabile. Forse è importante portare un po’ di saggezza e buon senso e imparare a distinguere intenzioni e motivazioni da obiettivi e aspettative. Riconoscere che questa pratica, un po’ come tutte le cose importanti della vita, richiede un certo sforzo e disciplina; quindi avere una direzione verso cui muoversi, è necessario. Ma andiamo per gradi.
Gradualità
La pratica meditativa è un addestramento graduale. Questa gradualità suggerisce che c’è uno sviluppo: la nostra pratica cambierà nel corso degli anni. Nessun risveglio può essere immediato, nessuna grande trasformazione può avvenire in velocità. Non sono realistici quei programmi che promettono una liberazione dalla sofferenza in 10 minuti o pochi anni.
Così come non diventiamo adulti di colpo, allo stesso modo la nostra pratica matura un po’ alla volta. Possiamo quindi metterci comodi e rammentare a noi stessi che è una pratica che dura tutta la vita; un sentiero percorso che richiederà assiduità. Ma anche altro, possiamo domandarci cosa ci serve per maturare? Quale il prossimo passo per supportare il mio percorso? Può essere un gruppo di pratica; un amico con cui confrontarsi, un mentore, un insegnante, o anche dedicare del tempo al servizio e la cura di altre persone, forse una certa disciplina.
Concentrazione o coltivazione?
Molto spesso la meditazione viene confusa con una forma di concentrazione. Soprattutto chi inizia a meditare investe tantissimo tempo nello sforzarsi di controllare il respiro in modo esclusivo; tutto quello che si mette tra noi e il respiro è considerato un nemico da combattere: il vicino, i figli, il postino e naturalmente i pensieri. “Quanti pensieri ci sono? Mi sono liberato dai pensieri? Ho svuotato la mente?”. Quando pratichiamo in questo modo la meditazione rischia di diventare arida, tesa, senza gioia, faticosa. Mi viene in mente un insegnamento del maestro zen Suzuki Roshi quando descrive la mente come un cavallo scalciante che viene chiuso in una gabbia. È quello che facciamo quando ci costringiamo a un’attenzione focalizzata. Piuttosto, diceva Suzuki Roshi, lasciamo che il cavallo abbia ampi spazi dove muoversi. Proprio in mezzo a questi spazi la mente trova pace. Quando meditiamo c’è molto di più in gioco della concentrazione.
Viene coltivata la consapevolezza quando ci accorgiamo di esserci persi e ricominciamo.
Viene coltivata la pazienza tutte le volte che rinunciamo l’irrequietezza, la fretta, la noia.
Viene coltivata la gentilezza quando lasciamo andare il giudizio su noi stessi, sulla pratica, sugli altri.
Viene coltivata la gioia e la tranquillità quando riusciamo a riposare anche per un solo respiro e ce ne rendiamo conto.
Molti concorderanno che pazienza, tranquillità, gioia e gentilezza sono assai più importanti della concentrazione per potere vivere serenamente. Dunque quando sediamo in meditazione possiamo domandarci “qual è la mia pratica proprio ora?”.
Valutare la propria pratica
È utile di tanto in tanto fermarsi e osservare come sta procedendo la nostra meditazione. Non ci interroghiamo se la meditazione ci piace, se ci distraiamo o ci muoviamo; piuttosto investighiamo in modo aperto e curioso:
- quanto stiamo imparando a conoscere noi stessi, a riconoscere i nostri schemi di attaccamento e resistenza? Quanto riusciamo a essere sinceri con noi stessi e a cercare di risvegliarci a ciò che è vero smettendola di raccontarci storie? Quanto riusciamo a portare questo nelle nostre giornate? Ecco: questa è la pratica informale, non smettere di coltivare l’essere svegli e non perderci di vista nel corso di una giornata.
- com’è cambiata la motivazione da quando ho iniziato a praticare? Quale l’intenzione che guida la nostra pratica?
- quali intuizioni sono arrivate negli anni di pratica? Quali trasformazioni hanno incoraggiato? Hanno creato un senso di maggiore equilibrio e benessere?
Lasciamo che queste domande possano essere esplorate con sincerità nel nostro cuore. Che possano essere un incoraggiamento a continuare questo incredibile sentiero di comprensione e saggezza.
Mentre ci prendiamo il tempo di osservare la nostra pratica nelle prossime settimane, lascio due inviti, che possano risuonare nel nostro cuore come un augurio: trovare la nostra voce, e restare semplici anche nella pratica.
Concediamoci il tempo per ritrovare la voce del nostro maestro interiore – o scoprirla per la prima volta; magari abbandonando per un po’ le tracce e meditazioni guidate. Fidiamoci di quello che accade anche quando ci sembra non stia succedendo nulla.
Diamo spazio alla semplicità del prendere posto, semplicemente incontrandoci. Impariamo a non preoccuparci troppo per ciò di cui facciamo esperienza nel corso della pratica, liberandoci dall’aspettativa di fare una certa esperienza. Proviamo, in questa libertà, a trovare gioia e agio, a trovare anche noi ampi spazi in cui dimorare.