A casa mia ci si toglie le scarpe prima di entrare. L’idea è forse quella di tenere la casa pulita ma non è solo una buona norma igienica. Credo ci sia qualcosa che racconta il desdierio di preservare lo spazio che è il tempio della nostra vita privata.
Nella Bibbia si legge un invito divino a Mosè “Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa” (Esodo 3: 5). Le scarpe hanno svolto un ruolo importante nella creazione di spazi sacri e riti sacri da sempre.
Induisti, musulmani, buddisti e varie tradizioni cristiane come quella copta prevedono questo rituale di spogliarsi dalle scarpe prima di entrare al tempio.
Si tratta di un gesto di rispetto: stiamo per calpestare uno spazio sacro; anche si tratta di cura e attenzione verso un momento che richiede la parte migliore di noi. Deponiamo le scarpe perché non abbiamo più bisogno di correre o scappare; lasciamo andare la parte più irrequieta e frettolosa di noi. In quel semplice gesto, dichiariamo di avere tutto il tempo a disposizione per i prossimi momenti.
È bello potere pensare a casa propria come uno spazio sacro in cui non ci sia più bisogno di correre, ma ahimè non è sempre possibile. Può essere utile allora creare un angolo della casa da riconosere come il luogo in cui entrare scalzi, così come siamo, un luogo in cui non abbiamo nulla da dimostrare, nessuna persona che dobbiamo diventare, nient’altro da fare.
Il maestro Thich Nhat Hanh, in un libro dal titolo Making Space (Fare Spazio), invita a creare nella propria casa, una stanza o un angolo in cui potere respirare.
“Ogni casa, non importa quanto piccola, può avere uno spazio per respirare…
Il tuo respiro è un luogo sacro. Non hai bisogno di mobili, forse solo un cuscino o due, e forse un altare o un tavolo con fiori freschi…
Ci deve essere un accordo in anticipo che tutti rispettino lo spazio di respirazione. Una volta che sei nella stanza di respirazione o nell’angolo del respiro, nessuno può più urlarti contro. Hai l’immunità. Quando senti i membri della tua famiglia nella stanza di respirazione, puoi sostenerli abbassando la tua voce, oppure potresti voler unirti a loro. Se sei molto arrabbiato, puoi ripristinare la tua chiarezza andando nella stanza di respirazione”.
A presecindere però dagli spazi veri e propri, possiamo domandarci quali sono le situazioni in cui, anche simbolicamente, ci togliamo le scarpe.
Non necessariamente deve trattarsi di un momento di spiritualità: infatti può trattarsi di un tempo tanto prezioso da richiedere rispetto e cura come quando addormentiamo i nostri bambini, o ci dedichiamo alla cura della nostra persona.
Possiamo anche notare se tendiamo a affrettarci la mattina a infilare le scarpe e correre verso la nostra giornata senza esserci fermati un momento a guadare il cielo e rimettere ogni cosa nella giusta prospettiva.
Penso a quando vado nell’hospice dove sono volontaria per il mio turno in corsia, ripongo il cellulare nella borsa per essere certa che il tempo con le persone che incontrerò resti sacro, per loro e per me.
O quando vado a trovare i miei genitori, faccio del mio meglio per liberarmi da impegni di lavoro in modo che quel tempo resti davvero esclusivo.
A volte, quando offro incontri di mindfulness, chiudo gli occhi mentre parlo. Lo faccio tutte le volte che sto cercando la parola giusta e faccio appello alla parte più autentica di me.
In tutte queste situazioni è come si fossi entrata scalza e in punta di piedi.
Mi tolgo le scarpe – realmente e metaforicamente – tutte le volte che medito. Questo non significa che la mia mente sarà sempre in pace, ma che dedicherò la parte migliore di me. E mi piace moltissimo durante i ritiri silenziosi notare le centinaia di scarpe posizionate prima della sala della meditazione. Mi ricorda la comune intenzione di chi ha scelto di entrare in quello spazio di sincera indagine.
La partica della mindfuness, ci inviterebbe a vivere scalzi e incontrare davvero ogni momento della nostra vita con rispetto e cura.
Per questo all’interno del percorso MBSR si porta enfasi a vari momenti della nostra giornata che normalmente vivremmo con il pilota automatico. Per qualcuno questi momenti si sono trasformati in veri e propri riti.
Chiudo ricordando come anche Chandra Livia Candini parla della stanza della meditazione come di un rifugio in cui ritrovarsi e lo fa raccontando la storia di un maestro taoista Chuang-Tzu .“‘C‘era un uomo che aveva paura della propria ombra e orrore delle proprie impronte. Cosi le sfuggiva correndo. Ma quante più volte alzava il piede, tanto più numerose erano le impronte che lasciava; e più in fretta scappava, meno l’ombra l’abbandonava. Credendo di andare troppo piano, corse più svelto senza mai riposare, finché, all’estremo delle forze, non mori. Egli non capiva che per far scomparire l’ombra bisogna rimanere nell’oscurità, che per far cessare le impronte bisogna rimanere nella quiete’. Ecco, una stanza della meditazione non è un luogo esemplare, né dove essere esemplari, ma dove stare fermi nell’oscurità per conoscere la propria ombra e le proprie impronte. E per procedere oltre”. Uno spazio dove entrare scalzi e incontraci così come siamo.