C’è una grande vicinanza tra la meditazione e la scrittura – e in generale con le diverse forme di creatività. Allo stesso modo, la meditazione è di per sè una pratica creativa che permette di ricontestualizzare noi stessi e il mondo con uno sguardo che non avevamo contemplato.
Scrittura?
Quando parlo di scrittura non mi riferisco al tentativo di trasformaci in poeti o scrittori professionisti ma alla possibilità di dare spazio e forma ai pensieri, alle emozioni, ai momenti della nostra vita. Attraverso la scrittura impariamo giorno dopo giorno a riconoscere la nostra voce, e darle autorevolezza e validazione. Molto spesso i praticanti raccontano di intuizioni che arrivano nel corso della pratica formale e informale; altrettanto spesso queste stesse intuizioni vogliono essere esplorate e la scrittura può essere una modalità (chiaramente non l’unica). In altri casi la scrittura assume la forma di semplici parole che sono più simili ai versi. Mi è capitato di trovarmi nel mezzo della pratica camminata e di riconoscere parole che poco dopo nel mio taccuino assumevano la forma di versi. Allo stesso modo, a prescindere dalla meditazione, la scrittura assume la forma di un diario che si sceglie di tenere per catturare momenti.
La motivazione iniziale
Da quando sono piccola tengo un diario, in alcuni periodi con maggiore costanza rispetto ad altri. Quando mi capita di sfogliarne qualcuno sembrerebbe che la mia vita sia stata attraversata da tragedie continue. In realtà il motore che mi spingeva a scrivere era spesso legato a un momento difficile che stavo attraversando. Non è tanto diverso da quello che succede con la meditazione. Molto spesso iniziamo a praticare proprio momenti di sofferenza. Molto spesso iniziamo a praticare proprio momenti di sofferenza. Qualcuno mi dice ancora di praticare “al bisogno” e cioè quando la situazione lo richiede. In realtà tanto la meditazione quanto la scrittura mostrano che le scoperte più grandi si fanno nella continuità. E infatti sono entrambe attività che necessitano di continua pratica.
Si dice che la scrittura abbia un effetto catartico e anche nella meditazione cerchiamo di trasformare la nostra sofferenza. Davanti il foglio bianco ci apriamo alla possibilità di osservare e forse comprendere cosa succede dentro di noi; allo stesso modo la meditazione ci invita a fare di noi un foglio bianco, minimizzando le distrazioni, e facendo spazio per ciò che avevamo ignorato finora. Sia la meditazione che la scrittura sono percorsi legati da una comune intenzione di trovare una certa libertà. Per questo tanto la meditazione quanto la scrittura condividono quella che in lingua pali viene chiamata samvega: l’urgenza di prendere posto nella nostra vita, un’urgenza di conoscere ciò che prima non era disponibile. Mentre quest’urgenza parte inizialmente da un disagio personale, molto individuale quasi egoistico, nel tempo si apre all’urgenza di una comprensione più ampia che riguarda la condizione dell’uomo e di come sceglie di abitare il mondo.
Stare con quello che c’è
Tanto la scrittura quanto la meditazione invitano un senso di presenza. Anche quando scriviamo di tempi passati o di programmi futuri lo facciamo partendo dall’esperienza presente ossia dal riconoscere ciò che oggi conosciamo del passato e del futuro. Anche per questo in narrativa si dice sempre che è un memoir non può mai essere del tutto accurato perché è filtrato dal giudizio e dalla prospettiva presente. Con la meditazione diventiamo consapevoli di questi filtri e impariamo a leggere gli eventi con una distanza e uno sguardo accurato. Drop the story and feel the feeling, dice un noto insegnamento della maestra Pema Chodron e cioè lascia andare la storia e senti l’emozione. Si tratta di un invito a lasciare andare le solite storie che ci raccontiamo da anni e che crediamo così vere al punto da non lasciare spazio per altro. Piuttosto concediamoci di essere presenti all’emozione che proprio qui e proprio ora è presente. Questa disponibilità è capace di offrire un nuovo sguardo completamente rinnovato su noi stessi, sugli altri, sul mondo.
Mostrare, non dire
Una delle sfide più difficili nei gruppi di praticanti è quella di imparare a dare un nome alle nostre emozioni, anche imparare a localizzare dove quella tristezza si annida nel corpo: “è come un mattone che mi schiaccia il petto”, “sento un vortice nella pancia”, “mi viene voglia di scappare”, “sento il mio volto diventare rosso e caldo”. Anche la scrittura ci invita a cogliere i dettagli di un evento o di un’emozione attraverso l’osservazione diretta e la sperimentazione dei nostri sensi. Show, don’t tell, e cioè mostra, non dire, una delle più note regole di scrittura ci invita a raccontare attraverso l’esperienza piuttosto che accontentasi semplicemente della parola tristezza.
Chi ha mai praticato con l’esercizio dell’uvetta lo sa già: da uno stesso oggetto noto, da una stessa situazione trita e ritrita, possiamo sempre scoprire qualcosa di nuovo se solo ci concediamo di prestare attenzione attraverso i nostro sensi e attraverso un’apertura che non ci eravamo concessi.
Come nelle nostre classi di meditazione scopriamo le infinite sfumature di un’emozione, allo stesso modo la scrittura scopre centinaia di modi di descrivere la sofferenza o la gioia; e lo fa non solo nel riconoscimento dell’emozione ma nel tentativo di raccontarne le sue manifestazioni.
Riesce sempre!
Come dico sempre ai praticanti in risposta alla loro preoccupazione che la pratica non sia stata efficace: “La meditazione riesce anche quando crediamo di esserci distratti per l’intesa sessione!”. Allo stesso modo anche quando crediamo che nella scrittura non stia succedendo nulla, e piuttosto che scrivere abbiamo cancellato, e piuttosto che creare abbiamo riformulato, qualcosa è comunque successo nel nostro processo di investigazione e riformulazione. Anche la scrittura riesce sempre. Quindi anche se siamo preoccupati per una pagina particolarmente scarna o di un linguaggio non sufficientemente chiaro, quella scrittura racconta come siamo in quel momento.
Creare una disciplina
Questo mi porta all’ultimo punto per questo blog: e cioè come tanto la meditazione quanto la scrittura siano pratiche e in quanto tali necessitano di una certa disciplina. Mentre la parola disciplina potrebbe erroneamente farci pensare a una costrizione o limitazione, ci stiamo di fatto riferendo all’abitudine di fermarci, di prendere posto nella postura e nella pagina bianca. Ho scoperto personalmente che una disciplina aiuta l’altra. Ritagliarci un momento di scrittura giornaliero, può portare il desiderio di osservare cosa accade nella nostra pratica formale. Allo stesso modo, dopo la pratica seduta possiamo prendere l’abitudine di osservare come stiamo.