Molto spesso capita che i praticanti mi chiedano a quale pratica dedicarsi, come scegliere tra la pratica di consapevolezza del corpo, del respiro, degli stati mentali. Come orientarsi? Continuare con la traccia oppure no? Altri praticanti, invece raccontano la difficoltà di trovare una buona ragione per meditare: sentono di non avere voglia, di avere perso la motivazione iniziale; spesso anche perché è venuta meno la ragione che inizialmente li aveva portati alla pratica.
Iniziare dalla nostra intenzione
In entrambi i casi, trovo sempre fondamentale partire dal perché meditiamo e dalla nostra intenzione profonda. Qualunque sia la ragione che ci ha portato sul cuscino da meditazione la prima volta, abbiamo forse scoperto che questo cammino è chiamato il cammino di risveglio o verso la liberazione: liberazione dalla sofferenza, dallo stress, da schemi ripetitivi, da attaccamenti e tutto ciò che è causa di sofferenza. Quindi, è utile rammentare che quando meditiamo non stiamo semplicemente imparando a rilassarci – anche se questo è un effetto importante della pratica che è importante riconoscere e apprezzare – piuttosto ci stiamo muovendo verso una maggiore libertà.
La meditazione inizia dall’invito a fermarsi e soprattutto dalla coltivazione di un’intenzione. Questa intenzione racconta della potenzialità che c’è in noi; ma non riguarda soltanto la nostra vita ho la direzione che vorremmo dare alle nostre giornate. Una delle insegnanti che seguo, Christina Feldman, insiste sempre sull’importanza di avere delle intenzioni di pratica: e cioè dell’impegno a portare nella meditazione una particolare qualità, facoltà o attitudine da coltivare. Christina raccomanda di tenere queste intenzioni di pratica sufficientemente a lungo da potere osservare le trasformazioni. Per esempio, in questi mesi sto praticando per portare nella mia pratica la qualità della tranquillità, che è considerato uno dei fattori da cui dipende il raccoglimento profondo. Questa intenzione guida la mia pratica e mi porta a osservare come quello che coltivo sul cuscino può avere un’influenza sulla mia giornata.
La pratica come un allenamento
Spesso i praticanti, dopo un percorso mindfulness-based, vengono invitati a continuare la propria pratica, partendo dalla domanda: come sto oggi? Di cosa ho bisogno? E quindi magari prediligere una pratica che possa sostenere i nostri bisogni. Per esempio se siamo particolarmente persi nei nostri pensieri forse può essere utile la pratica camminata; se percepiamo una certa stabilità possiamo dedicarci all’investigazione profonda. La mindfulness, cioè la consapevolezza di come stiamo, è quindi il punto di partenza. Trovo che sia un’indicazione utile.
Allo stesso tempo, però è importante non pensare alla meditazione come qualcosa che si pratica “al bisogno”; e quindi non pensare alle meditazione come a una playlist stile-Spotify che si basa sui nostri stati d’animo “lavorare senza stress”, “litigare senza-giudizio” e via di seguito.
In alcuni casi trovo importante tenere la stessa pratica per un periodo prolungato in modo da potere osservare e i piccoli cambiamenti. Per esempio, con un gruppo di praticanti abbiamo provato a seguire quelli che sono i fondamenti della Mindfulness del Satipatthana Sutta, quindi privilegiando un periodo dedicato alla consapevolezza del corpo, poi alle tonalità, agli stati della mente, agli ostacoli alla pratica. Anche, può essere trasformativo dedicare un periodo prolungato alla pratica della gentilezza, in modo che questa facoltà non sia coltivata “al bisogno” ma possa impregnare la nostra vita e essere investigata anche quando risulta più ostica.
Sul non avere voglia
Avevo già parlato di questo tema così frequente e interessante da esplorare. Infatti, nonostante sembri diminuire la voglia di meditare, non si abbandona mai del tutto il desiderio di tornare sul cuscino da meditazione. Qualsiasi praticante sarà prima o poi toccato da questo stato d’animo. A un certo punto la pratica diventa quasi noiosa. Questo momento viene spesso descritto come “la fine della luna di miele”. Cioè dopo la meraviglia del respiro, dopo avere risvegliato i sensi del corpo, dopo la scoperta che non siamo i nostri pensieri, pensiamo che non sia molto altro da scoprire. In verità solo quando la pratica diventa noiosa stiamo di fatto inizia la nostra vera pratica. Ci stiamo di fatto muovendo nella fase successiva che non è basata su quello che dice l’insegnate, su alcune tracce o esperienze meditative che abbiamo avuto; non aspettiamo passivamente che qualcosa di speciale accada, magari un insight. Effettivamente non c’è niente di passivo nella pratica. Ci viene richiesto in questo momento di prendere posto, fare appello all’energia necessaria, e soprattutto alla parte più profonda che vive dentro di noi, al nostro maestro interiore.
Praticare senza traccia guidata
È in questi casi che suggerisco di abbandonare, almeno temporaneamente, le tracce audio se siamo abituati a usarle. Per quanto la voce del nostro insegnante possa offrire rassicurazioni in alcuni momenti, potrebbe diventare una stampella non necessaria; potrebbe impedirci di riconoscere la nostra stessa voce, il nostro maestro interiore. Se prendiamo posto è perché abbiamo scoperto qualche cosa dentro di noi. Questo qualcosa va visitato più spesso possibile. Questo qualcosa non è legato all’insegnante, alla traccia o al momento della nostra vita. Questo qualcosa è legato solo a noi e vive nella profondità del nostro cuore. Solo nel silenzio della nostra pratica possiamo accedere a questo spazio misterioso e appagante. Ci incontriamo così come siamo. Ci viene richiesto di fare appello alla fiducia che arriva dalla nostra stessa esperienza. Scopriamo infatti che la pratica è proprio qui e ora; è ciò di cui stiamo facendo esperienza, inclusa tutta la confusione e la poca chiarezza. La cosa importante è continuare a prendere posto.
Qual è la mia pratica proprio ora?
Allora, nel metterci a meditare, piuttosto che domandarci “di cosa ho bisogno” possiamo chiederci “qual è la mia pratica proprio ora?”. Ecco che ritorniamo al nostro maestro interiore, e la mindfulness, la presenza mentale ci permette di scegliere momento dopo momento cosa coltivare e cosa lasciare andare. Impariamo a dare più autorità alle nostre intenzioni che i nostri stati d’animo. Impariamo a conoscere cosa è essenziale cosa non lo è, cosa mi nutre e cosa mi svuota, cosa porta sofferenza e cosa mi libera dalla sofferenza. Anche fuori dalla cuscino da meditazione, nelle nostre giornate, nelle nostre conversazioni, possiamo domandarci “qual è la mia pratica proprio ora?” e osservare se stiamo praticando la distrazione o il raccoglimento, la gentilezza o la divisione, la contrazione o l’espansione. Spesso proprio questi momenti fuori dal cuscino sono quelli in cui arrivano le intuizioni più profonde.
Riflettere sulla nostra pratica
Personalmente trovo utile tenere traccia in un diario della mia pratica, non per raccontarmi se è andata bene o male; piuttosto per ricordare l’intenzione che porto e prendere nota delle piccole scoperte. È incredibile notare a distanza di tempo, come anche nei periodi in cui la pratica mi sembrava arida, in realtà numerose scoperte prendevano forma.
Mentre mi avvio alla fine di questo blogpost, chiudo con alcune domande di investigazione per la nostra pratica; possono anche essere esplorate attraverso la riflessione, la scrittura, anche con un compagno o gruppo di pratica.
- Quali sono le condizioni supportano la mia pratica?
- In quali momenti nel corso della giornata mi sembra che il mio senso di presenza scompaia?
- Quali sono le mie intenzioni di pratica? Perché sono così importanti?
- Come il mio essere presente influenza la qualità della mia giornata?
Buona pratica e buona esplorazione!