È arrivato il momento dell’anno in cui ci fermiamo per ricordare le persone della nostra vita che non ci sono più. In questi giorni così unici che stiamo vivendo, trovo questa commemorazione ancora più speciale. La pandemia ha improvvisamente creato il vuoto in tantissime famiglie, in alcuni casi togliendo loro uno dei momenti più sacri della fine della vita, che è quello del commiato.
In un contesto così doloroso, si aggiunge a volte una certa leggerezza che vedrebbe la morte di persone avanti negli anni, come normale e prevedibile. Questo ci apre a un tema fondamentale sulla perdita, quello dell’importanza di riconoscere ogni lutto come tale, e ogni sofferenza come degna di essere provata nel nostro cuore.
A volte creiamo una sorta di gerarchia della sofferenza, e quindi una gerarchia del lutto. Come se la perdita di un nonno o di una persona che ha già vissuto pienamente la vita non andasse pianta al pari di altre. Ma non è così. A volte la persona che ha subito il lutto deve quasi giustificare la propria sofferenza spiegando che la persona mancata era come un genitore. La sofferenza non necessita di giustificazioni.
Questo ahimè vale per numerose altre perdite, come quelle di un bambino mai nato.
Quel bambino è vissuto nel cuore, nella mente e nel corpo della mamma che lo ha tenuto in grembo e protetto per come ha potuto. Il dolore e il senso di impotenza per quella perdita, a volte è straziante ancora dopo tanti anni di distanza.
Questo vale anche per la perdita di un amico, anche se non era una sorella o un fratello. E infatti non esiste alcuna regola per cui la perdita di un congiunto di primo o secondo grado debba essere più forte delle altre. Io lo so bene perchè non riesco neanche a parlare della mia amica Paola senza piangere ancora ora.
Un altro cliché sulla sofferenza del lutto, è quella finta consolazione del detto “almeno non aveva figli”. Fermi tutti: mi sento chiamata in causa!
Per favore, nel caso, piangete pure quando non ci sarò e non lasciate che la mia perdita sia di serie B. Lasciate che la sofferenza trovi spazio nel vostro cuore senza se e senza ma.
E infine penso alle numerose volte in cui, davanti una morte tormentata, cerchiamo sollievo dicendo frasi come “almeno ha smesso di soffrire”. E’ assolutamente comprensibile ma allo stesso tempo è anche questa una piccola difesa alla paura – così umana – della sofferenza fisica. Penso a Luigi, quando parlando di sua mamma, mi ha raccontato di avere pronunciato quella frase più volte. E ora che non c’è più invece, la vorrebbe ancora qui, in qualsiasi stato.
Non esiste purtroppo alcuna verità davanti la perdita e davanti la sofferenza.
Solo il rispetto per un vuoto che si è creato.
Queste giustificazioni sono una vera e propria distanza che viene presa con il lutto e con la sofferenza; e riguardano chi resta. La mente si attiva affinché il cuore non provi la sofferenza che comunque già prova. E mentre normalizziamo la morte degli altri cercando una qualche giustificazione, ci allontaniamo dalla sofferenza che vive nel nostro cuore.
C’è una cosa che impariamo ai corsi di mindfulness e cioè che non esiste gerarchia nella sofferenza. A volte, all’interno dello stesso gruppo c’è qualcuno che sta affrontando la perdita di un genitore o di un figlio, la perdita del lavoro, lo stress della vita di tutti i giorni.
Un giudizio superficiale ci porterebbe a dire che una sofferenza è più degna di un’altra.
Ma non è così. La sofferenza crea un linguaggio tra le persone, una melodia comune. Crea uno spazio di empatia, comprensione e ascolto. Ecco come la descrive Stephen Levine, uno dei più grandi maestri sul tema del fine vita :
“Il dolore con cui nasciamo, l’innominata pesantezza nel cuore che a volte ci fa domandare anche da bambini – Perchè siamo qui? Perché a volte fa male essere vivi? (…) Come possiamo entrare in contatto con quel dolore profondo, quella paura della perdita che crea paura della vita stessa, quel dubbio su di noi e sulla nostra capacità di sperimentare profondamente il mondo perché temiamo così tanto la perdita e il cambiamento? “
La consapevolezza ci invita a riconoscere la sofferenza come parte della vita e a incontrarla con dignità. La pratica ci allena a ascoltare con un cuore aperto e libero da condizionamenti tutto ciò che è spiacevole e che istintivamente vorremmo respingere.
La vita di tutti i giorni ci offre innumerevoli occasioni per sperimentare tanti piccoli addii: possiamo allenare la nostra capacità di aprirci alla sofferenza e non fuggirla dietro mille giustificazioni.
Magari accorgerci quando l’indifferenza prevale o quando stiamo mettendo una distanza tra noi e la sofferenza degli altri. E quando sentiamo della perdita di qualcuno, alleniamoci a avvicinare la mano al cuore, e semplicemente dire “mi dispiace per la tua perdita”.