Quante volte nella vita abbiamo dovuto dire addio? Quante volte abbiamo assistito impotenti alla fine di un amore, di un lavoro che amavamo, del sogno di una vita? In qualche momento della vita abbiamo incontrato la perdita. Non serve andare a cercare tra gli eventi più dolorosi come la scomparsa di una persona cara. La perdita si manifesta più e più volte nella nostra vita con diverse intensità; senza accorgercene contribuisce a renderci chi siamo oggi. Se oggi sono un’insegnante di mindfulness, lo devo anche al tema della perdita che è emerso nella mia pratica.
L’altra faccia della perdita
La mindfulness, invitandomi a incontrare il momento presente, mi fa fatto scoprire che la perdita aveva due dimensioni. Da un lato l’evento in sé, cioè avere perso qualcosa di caro. Nessun controllo su questo. L’altra dimensione era il modo con cui mi relazionavo con questo evento: i pensieri e le emozioni che arrivavano: rabbia, paura, senso di colpa, resistenza, rancore, impotenza. Su questi potevo praticare.
Questa consapevolezza mi ha offerto una nuova prospettiva e mi ha mostrato che oltre la sofferenza e il senso di smarrimento, c’era tutto l’amore verso ciò che stavo lasciando andare.
Che si tratti di una persona che abbiamo amato, di un lavoro che ci faceva saltare giù dal letto la mattina o di un amore che credevamo sarebbe durato per sempre: il cuore del dolore racchiude anche l’amore più grande.
Il consiglio che ci viene dato
Lo scorso Settembre ho perduto una cara amica. I mesi che hanno preceduto l’evento erano carichi di paura. La sua morte ha generato un’esplosione di vera e devastante tristezza. Mi sono ritrovata a piangere moltissimo. Mi è capitato di sciogliermi in lacrime in diverse situazioni e davanti a persone che non conoscevo. Questo ha scaturito diverse reazioni. Il consiglio che mi veniva fatto era di essere forte, di andare avanti, di distrarmi.
Mi ha fatto pensare che involontariamente si crea una silente divisione tra “buoni sentimenti” – che va bene provare e esternare – e “cattivi sentimenti” – che bisognerebbe controllare, reprimere, o quanto meno consumare in privato.
In realtà per me piangere era consolatorio. La possibilità di esprimere le mie emozioni, mi permetteva di restare vicina al mio dolore, al mio essere e anche alla mia amica. Un modo per esprimere a pieno tutta la tristezza che riempiva il mio cuore.
Il consiglio di voltare la testa dall’altra parte, prendendo distanza dal dolore, mi allontanava dal mio sentire più vero e anche dalla mia amica che meritava ogni lacrima. Loro Rinzler in uno dei suoi libri dice “Desidero tanto poter scrivere una lista di dieci punti indicando cosa fare per riparare il tuo cuore infranto. Non posso. Non è così che funziona il dolore. Credo che l’unico modo per superare il nostro dolore sia sistemarsi proprio al centro di quella esperienza terribile, devastante, sconvolgente”.
Morire ogni giorno
A un ritiro a cui ho partecipato recentemente, l’invito che ci veniva dato nei giorni della pratica era quello di vivere ogni momento come fosse l’ultima volta (una valida alternativa alla mente del principiante). La qualità in ogni gesto era all’insegna della cura, dell’amore, della pazienza, della precisione. Nulla era lasciato al caso.
Mi è venuto in mente un piccolo rito che ho con mio marito. Ogni volta che esce di casa, qualunque sia l’orario (ripeto: qualunque sia l’orario!), lo accompagno alla porta, ci salutiamo con un bacio, ci auguriamo buona giornata (se è mattina). Lo seguo mentre si allontana e prima di sparire dalla mia vista lui si volta per un breve momento. Questo rito avviene in ogni circostanza anche se per caso c’è un litigio in corso. Forse c’è un qualcosa di scaramantico nei riti, non lo so. Certamente entrambi sappiamo quanto valore c’è nell’esserci donati quegli sguardi. Facciamo esperienza di impermanenza 24 ore al giorno: da quando apriamo gli occhi e abbandoniamo le ore di riposo (come le lasciamo andare?), a quando dobbiamo uscire da casa (come la lasciamo?), quando portiamo alla bocca quell’ultimo boccone di un piatto che magari abbiamo preparato con cura (come lo lasciamo andare?). Ogni gesto nelle nostre giornate è una pratica alla perdita. Come la incontriamo?
ll coraggio nella perdita
Se stai leggendo questo blogpost o se stai pensando di avvicinarti alla mindfulness, stai già sperimentando il coraggio nella perdita: la realizzazione che puoi fare qualcosa con la sofferenza che hai dentro. Detto con le parole di Frank Ostaseski “Toccare con consapevolezza, compassione e tenerezza ciò che prima toccavamo solo con paura è un metodo per esprimere una presenza coraggiosa”. Scegliere di dedicare del tempo a esplorare questo spazio, indica il coraggio che abbiamo a sperimentare la perdita invece che combatterla.
La pratica della meditazione è stato un modo per smettere di lottare contro me stessa, con le circostanze, con le emozioni. Per me è significato fare amicizia con il senso di impotenza. Prima di lasciarlo andare, ho dovuto lasciarlo entrare.
La pratica della consapevolezza mi ha offerto un punto di vista completamente nuovo. Ho scoperto che la corazza di forza e efficienza che mi portavo dietro da anni era un po’ pesante e soprattutto non lasciava entrare la mia tanto più umana vulnerabilità. In questa scoperta, trovavo anche il mio coraggio. Detto con le parole di Ostaseski: “Il coraggio di amare richiede vulnerabilità. C’è uno stato più vulnerabile dell’amore? Riconosciamo l’illusione del controllo, la verità che la sofferenza è inevitabile e siamo invitati a liberarci delle nostre certezze, lasciandoci andare all’inspiegabile e all’imprevedibile”.