Qual è la differenza tra il felice divagare della mente e quel fastidioso ruminare che ci porta solo ansia?
Per tanti anni ho passato le estati in una casetta vicino al mare in posto chiamato Calarossa. Uno dei momenti più dolci dell’estate era l’ora della siesta, incorniciato dal suono incessante delle cicale mescolato a quello di chi tornato dal mare stava ancora pranzando, o di qualche bambino che si era opposto al riposino pomeridiano. Quella era l’ora più dolce per perdersi nei disegni che mi sembrava di vedere sul muro rugoso della stanza e nei miei pensieri, uno spazio a metà tra sogno e veglia. Chissà quante riflessioni importanti della mia vita sono avvenute in quei momenti senza costrizioni o pressioni. La mia mente si perdeva, si annoiava, vagava, faceva spazio.
Sono certa che è anche l’esperienza di tanti altri, di chi tra le nuvole ha cercato di riconoscere una figura o chi guardando le stelle si sia perso facendosi domande su di sè, sugli altri, sul mondo.
L’estate è fatta anche per questo. Le vacanze sono pensate proprio per creare un vacuum, uno spazio vuoto che non necessariamente deve essere riempito, per un sano divagare della mente, per una noia che si trasforma in intuizione.
Che differenza c’è allora tra questo felice divagare della mente e quella mente ruminante che spesso nella meditazione cerchiamo di stabilizzare? Forse intuiamo attraverso la nostra esperienza diretta che non sono la stessa cosa. La prima trasmette un senso di pace e spaziosità; la seconda un’oppressione e una contrazione che non lascia spazio a nient’altro.
Anche la ricerca ha scoperto che c’è una grossa differenza tra queste due modalità. Ecco alcune cose che la ricerca ha dimostrato negli anni:
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Nel momento in cui non facciamo niente in particolare, la nostra mente si mette a vagare. È nella natura della mente vagare; di questo ne hanno fatto esperienza tutti i meditanti del mondo. Tanto la scienza quanto la meditazione hanno scoperto che il default mode della mente è quello di vagare (Raichle, MacLeod, Snyder, Powers, Gusnard 2001)
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Una famosa ricerca racconta di come una “wandering mind is an unhappy mind” una mente che vaga è una mente infelice. La ricerca che ha coinvolto 2250 persone, ha registrato momenti felici e infelici nel corso della giornata per scoprire che i momenti di maggiore infelicità corrispondevano ai momenti in cui la persona era meno presente a quello che stava facendo a prescindere dalla spiacevolezza del momento (Killingworth & Gilbert, 2010).
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C’è una distinzione tra 1) una divagazione mentre stiamo cercando di concentraci in qualcosa, per esempio quando stiamo meditando, studiando o lavorando e la nostra mente scappa altrove; 2) quando la nostra mente è a riposo e si mette a vagare (default mode), 3) quando si perde in libere associazioni come facevo io al mare e tanti di noi fanno guardando le nuvole e le stelle e intenzionalmente scegliendo di perdersi un po’ senza meta (Smallwood & Schooler, 2015)
Persi tra i pensieri
Una delle prime cose di cui facciamo esperienza quando iniziamo a meditare è quanto persi siamo nei nostri pensieri. Molte persone addirittura arrivano al corso di mindfulness perchè vorrebbero fermare i pensieri o svuotare la mente.
È frequente sentire di partecipanti che dopo 3 o 4 settimane lamentano di essere ancora più persi nei propri pensieri di quanto non lo fossero all’inizio del corso. Ma è veramente così? In verità siamo tanto persi quanto lo eravamo prima, solo che ora iniziamo a accorgercene. Per usare un’immagine efficace offerta dal maestro Joseph Goldstein, è come osservare una maglietta piena di macchie: quasi non ci accorgiamo delle macchie ce restano mescolate tra loro. In una maglietta bianca con una sola macchia, finiamo per notarla più velocemente.
Man mano che proseguiamo nella nostra pratica iniziamo a vedere la nostra mente vagante e iniziamo a riconoscere gli schemi ripetitivi, la mente giudicante, la mente comparativa e via di seguito. La meditazione ci mostra senza complimenti questi pensieri ripetitivi e gli schemi che ci rendono a volte così infelici. Ci offre anche la possibilità di uscire da quel labirinto di pensieri per ritornare a noi.
Allo stesso tempo, c’è una grossa differenza nel momento in cui scegliamo intenzionalmente di fermarci e lasciare che la nostra mente si perda in libere associazioni. L’intenzionalità come sempre, gioca un ruolo fondamentale per determinare la nostra presenza in qualsiasi cosa stiamo facendo, incluso il mind-wandering.
Da un anno abbiamo dato il benvenuto nella nostra famiglia a Marsi, una cagnolina meticcia che sta iniziando a scoprire il mondo. Tutte le volte che possiamo nelle nostre passeggiate ci fermiamo in una panchina e ci guardiamo attorno. Lei familiarizza con i suoni, i passanti, le bici, gli altri cani. Io mi concedo un sano e intenzionale mind-wandering che non vuol dire semplicemente guardare le nuvole o contare i passanti, ma anche intenzionalmente riflettere e perdersi in una questione che mi preoccupa, in un programma che desidero portare avanti o una ricetta da provare. Avere lo spazio per potermi perdere intenzionalmente in questi pensieri è una fonte di grande creatività e realizzazione.
Chiudo con una poesia importante per la letteratura italiana, una poesia che tutti abbiamo studiato a scuola e quasi tutti abbiamo amato proprio perchè coglieva la dolcezza del divagare con la mente, del perdersi, del naufragare tra i meandri dei pensieri.
L’Infinito
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.
– Giacomo Leopardi