Molto spesso nel corso degli incontri di meditazione, mi capita di leggere poesie. Scelgo poesie a volte anche per rispondere a domande dei partecipanti; quando mi accorgo che le mie parole sarebbero inadeguate per la portata di quello che viene condiviso, e mi rendo conto che nessuna risposta può funzionare meglio dei versi di una poesia.
Infatti, la poesia permette di andare oltre il linguaggio. Proprio come recita un celebre verso di Rumi “C’è una voce che non usa parole. Ascolta”. Ecco, tanto la poesia quanto la meditazione, invitano a un ascolto che va oltre le parole. Se la meditazione occupa spazi che vanno oltre il linguaggio, la poesia che chiaramente si avvale di parole, cerca di tradurre l’esperienza. Proprio come dice la poetessa americana Joy Harjo: “La poesia è andare nei luoghi che non hanno parole e trovare le parole”.
È frequente sentire l’esperienza di chi inizia a meditare e inizia a percepire il mondo circostante, in modo nuovo. La stessa strada che da sempre percorriamo ci sembra nuova e ricca di stimoli, il volto del negoziante con cui ogni giorno parliamo, assume sfumature finora sconosciute. L’ordinario diventa straordinario. La pratica di consapevolezza finisce per aprire le porte a una sensibilità che trova espressione in svariate forme artistiche. E non solo. Anche le più semplici attività domestiche, quotidiane, diventano un’occasione per spalancare le porte all’irrilevante.
Ricercata solitudine
Tanto la poesia quanto la meditazione nascono dal silenzio. Entrambe rispondono alla capacità di aprirsi, abbandonarsi all’esperienza domandandosi “cos’è questo?”. Tanto la poesia quanto la meditazione sorgono da un’esperienza di ricercata (o ritrovata) solitudine. Una solitudine che non racconta un senso di privazione ma di pienezza. Una solitudine che, se dovesse essere espressa dalle sensazioni del corpo sono più simili all’espansione che alla contrazione. Come dice Rilke “Solo di questo abbiamo bisogno: solitudine, grande solitudine interiore. Andare-dentro-di-sé e non incontrare nessuno per ore: si deve essere in grado di raggiungere questo”.
Eppure è vero anche il contrario. Come sappiamo, molte volte la nostra meditazione racconta il frastuono del nostro cuore, allo stesso modo, anche certa poesia racconta proprio la nostalgia dal silenzio. Alcune righe di Paul Valery dicono “La mente è terribilmente variabile, ingannevole e auto-ingannatrice, fertile in problemi insolubili e soluzioni illusorie. Come potrebbe emergere da questo caos un’opera notevole, se questo caos che contiene tutto non contenesse anche qualche seria possibilità di conoscere se stessi e di scegliere dentro di sé ciò che vale la pena prendere da ogni momento e utilizzare con attenzione?”.
Proprio nelle scorse settimane, tutto quello che sono riuscita a scrivere era proprio la difficoltà a trovare pace. Ogni spazio dentro e fuori di me sembrava occupato e non c’era luogo dove potere trovare pace. Se è vero che iniziamo a meditare per una certa nostalgia da noi stessi, forse anche nella scrittura della poesia cerchiamo un’ancora a cui aggrapparci, o semplicemente riconosciamo cosa voglia dire essere travolti.
Intimità
Meditazione e la poesia ci permettono di costruire una relazione di intimità con noi stessi. Come dice il maestro di Dharma Joseph Goldstein, con la poesia e la meditazione scopriamo come non occorra la presenza di un’altra persona per fare esperienza di intimità. Quanta intimità creiamo con il nostro respiro, con quell’emozione, anche di sofferenza che sembra non lasciarci più. Quanta intimità quando pratichiamo la meditazione camminata e magari facciamo esperienza di quanta consolazione possa esserci quando il nostro piede sfiora il suolo che calpestiamo. Quanta intimità in quelle mani raccolte tra loro in grembo e anche quando facciamo esperienza di non separazione con tutto quello che ci circonda. La poesia dà espressione all’esperienza di intimità. La ricerca della parola, la penna che indugia sul foglio per cercare di ritrovare quella stessa intimità.
A volte è proprio questa intimità, la ragione per cui non scriviamo oppure non condividiamo le nostre poesie. Succede nei gruppi di scrittura. Dopo avere scritto per una settimana o due, scegliamo cosa leggere al gruppo almeno qualche riga di quello che abbiamo scoperto. Qualcuno preferisce raccontare piuttosto l’esperienza che si è fatta. Io stessa faccio molta fatica a condividere le righe che scrivo, capisco che in qualche modo è come mostrare il mio cassetto più intimo.
Revisione
Tanto la meditazione quanto la poesia cercano di andare all’essenza dell’esperienza. Se nella meditazione facciamo esperienza di vuoto attraverso il lasciare andare; allo stesso modo, con la revisione della poesia spesso siamo portati a togliere tutto quello che è solo un orpello per l’esperienza. In questo senso anche la revisione della poesia è una pratica. Facciamo ancora una volta esperienza di ciò che è vivo nel nostro cuore, investighiamo e ci domandiamo: è veramente così? Togliere tutto quello che è extra. Andare all’essenziale. Trovare la giusta parola. Proprio come nella scultura Michelangelo raccontava l’esperienza togliere materia dalla pietra per vedere quello che resta. Come scriveva May Sarton nel suo Journal of a solitude “Si ritorna sempre alla stessa necessità: quella di andare abbastanza a fondo da trovare la base della verità, per quanto ostica essa sia”.
Allora quando siamo in un luogo calmo, quando la mente è tranquilla, e anche quando è affollata, quando assaporiamo lentamente un’immagine, un suono, un’esperienza, tutto questo può essere poesia. La pratica di consapevolezza permette di trovare poesia nelle nostre giornate, di fare delle nostre giornate poesia.
Chiudo ancora con una citazione di Allen Ginsberg. “I veri praticanti della poesia sono praticanti della consapevolezza mentale, o praticanti della realtà, che esprimono il loro fascino per l’universo fenomenico e cercano di penetrarne il cuore. (…) La poesia è un ‘processo’ o un esperimento: un’indagine sulla natura della realtà e sulla natura della mente”.