La maggior parte di noi ha iniziato a meditare al chiuso di una stanza, sedendo su una sedia o su un cuscino. Negli ultimi anni addirittura, con la pandemia, siamo stati abituati a meditare davanti al computer.
Eppure la maggior parte delle tradizioni contemplative sono nate all’aperto, in mezzo alla Natura. Nella tradizione buddista Gautama Siddhartha è diventato il Risvegliato proprio sedendo sotto un albero; i primi insegnamenti sono stati offerti in pellegrinaggi in mezzo alle rocce. Le istruzioni alla pratica meditativa dicono del meditante “si reca all’interno della foresta, o sotto un grande albero”; e la meditazione della gentilezza è stata insegnata per proteggere alcuni monaci che si erano ritirati in un bosco isolato. Tutto questo per rammentarci l’importanza fondante che la Natura ha nella nostra pratica.
Quanto presente è la Natura nella nostra giornata? Nel corso dell’anno molti di noi si trovano a vivere lontani da un ambiente che incoraggia questo contatto. Le vacanze o il fine settimana possono diventare il momento per incontrare e incontrarci nella Natura. L’escursionismo, il camminare può diventare una modalità per continuare a esplorare quelle stesse sfide che conosciamo dalla nostra pratica meditativa.
Meditare in escursione
- Così come la meditazione, anche il camminare inizia con l’intenzione. Non stiamo semplicemente andando a passeggio, piuttosto desideriamo percorrere una strada con consapevolezza e provando a incontrarci, aprendoci alla possibilità di scoprire qualcosa di noi che non conoscevamo, e a essere quindi trasformati. Come ci ricorda Chandra Livia Candiani, parlando della meditazione camminata e citando alcune righe di Italo Calvino:”Il camminare presuppone che ad ogni passo il mondo cambi in qualche suo aspetto e pure che qualcosa cambi in noi”. La preparazione racchiude già un senso di intenzione, di preparazione, di disciplina.
- Iniziamo a camminare facendo esperienza del nostro corpo, della temperatura nel corpo, dell’attrezzatura che abbiamo scelto, del contatto con la strada. Facciamo alcuni passi lenti per sentire la scarpa che tocca il suolo, il peso che si sposta, iniziamo a conoscere il nostro ritmo. Osserviamo come varia nella salita e nelle discese.
- Iniziamo a fare amicizia con il nostro respiro, il vero capofila per l’intera gita. Ci terrà compagnia per l’intero percorso informandoci su come stiamo.
- Ci prendiamo delle pause: ci apriamo alle porte sensoriali e quindi guardiamo, ascoltiamo, annusiamo, tocchiamo. Sperimentiamo, chiudiamo gli occhi, li riapriamo. Sentiamo l’aria sul viso. Osserviamo dove il nostro sguardo si posa volentieri. Cosa ci dice questo posto?
- Osserviamo quanto il nostro attaccamento alla destinazione, quanto le aspettative di fare un certo tempo, ci allontanino dalla nostra intenzione e dalla nostra meditazione.
- Proviamo a impiegare la giusta energia, il giusto sforzo: non stiamo semplicemente passeggiando: rammentiamoci che dobbiamo tenere un certo passo, e allo stesso tempo restare in contatto con lo spazio circostante, restando in contatto con il nostro respiro, tenendo tutto questo in un gentile equilibrio.
Gli ostacoli alla pratica
Come nella meditazione, anche nel cammino saremo visitati da quelli che spesso sono chiamati gli ostacoli alla pratica.
- Incontriamo il desiderio tutte le volte che i nostri sensi si lasciano distrarre da un piacere che genera attaccamento. La nostra mente è già proiettata al picnic che abbiamo dentro lo zaino. Un cespuglio di fiori colorati ci sembra troppo bello per non essere raccolto, strappandolo alla montagna, e quindi alla possibilità per altri di godere della stessa bellezza. Un paesaggio ci sembra così mozzafiato da dovere essere catturato in una foto, anzi in due, cinque, dieci, cinquanta foto. Non c’è nulla di sbagliato nel volere ricordare un momento speciale con qualche foto ricordo, ma notiamo quanto questo a volte ci proietta in un tempo futuro, in una serie di aspettative anche sulla foto.
- L’avversione si manifesta con tutte le resistenze al momento, “se solo avessi l’attrezzatura giusta”, “se solo il tempo fosse diverso”, “se solo la passeggiata fosse più corta”, “se solo questa gente camminasse più lentamente, velocemente …”. Possiamo trasformare queste insofferenze come uno specchio per la nostra pratica, di trasformare questi moti di stizza in gentilezza, accoglienza, accettazione. Quando ci troviamo in questi momenti, possiamo semplicemente accompagnare il momento con una frase come “per ora è così”.
- L’irrequietezza si presenta attraverso una mente molto attiva che si allontana dal percorso e può anche distrarci al punto da farci perdere la concentrazione facendoci mettere un piede in fallo o sbagliando strada. Osserviamo quanto la mente possa restare impigliata nelle cose della giornata, nei ruoli e nelle responsabilità. Osserviamo la tendenza a controllare il cellulare. Mi viene in mente una frase di Henry David Thoreau scriveva “Mi allarmo quando, addentrandomi per un miglio in un bosco, mi accorgo di camminare con il corpo senza esser presente con lo spirito. Vorrei, nei miei vagabondaggi pomeridiani, dimenticare le occupazioni del mattino e gli obblighi sociali. Ma talvolta non è facile liberarsi delle cose del villaggio. Il pensiero di qualche lavoro si insinua nella mente e io non sono più dove si trova il mio corpo, sono al di fuori di me. Vorrei, nei miei vagabondaggi, far ritorno a me stesso. Perché rimanere nei boschi se continuo a pensare a qualcosa di estraneo a quel che mi circonda?”
- Il torpore nel corso del cammino può essere espresso dal sorgere della stanchezza. Domandiamoci se siamo effettivamente stanchi e quindi abbiamo bisogno di una pausa. Se il nostro passo è lento e trascinato, se il desiderio continuo di fermarci è invece un’apatia che già conosciamo in altri ambiti della nostra vita, conosceremo anche l’energia necessaria per contrastarlo.
- Infine il dubbio si presenta nel momento in cui crediamo di non essere all’altezza, che l’escursionismo non fa per noi e tante altre incertezze che mettono ogni cosa in discussione. Riconosciamo che c’è dubbio, e proviamo a ricordare la nostra intenzione, la disciplina che ci ha portato sul cammino. Con il dubbio, è anche utile confrontarsi con amici di pratica, e in questo caso con amici del cammino, perché possano essere uno specchio per le nostra titubanze.
Praticare da soli o in gruppo
Così come la meditazione trova la sua espressione migliore quando è condivisa, anche il camminare può essere esaltato con altre persone. Allo stesso tempo, gli altri possono essere una distrazione dalla nostra intenzione, dal radicamento nel corpo, anche dal nostro respiro. In questo caso è utile:
- ricordarci di fare delle pause, di tanto in tanto riconnetterci al nostro respiro, oppure sentire il contatto dei piedi col suolo.
- sollevare lo sguardo e riconoscere la bellezza di condividere il percorso con qualcuno senza dimenticarci di noi.
- apprezziamo i momenti di silenzio anche in compagnia, osservare quanto traboccante possa essere il silenzio condiviso in mezzo alla natura.
- osserviamo la nostra insofferenza o avversione alle persone che incontriamo sul cammino e trasformare piuttosto ogni incontro in un’occasione di gentilezza. Nel nostro cuore possiamo augurare il bene alle persone che proprio come noi stanno trascorrendo una giornata in mezzo alla Natura. “Che tu possa godere di questa giornata”.
- Alla fine della camminata prendersi il tempo di ringraziare le persone con cui abbiamo condiviso la strada.
Alla fine
E chiaramente anche la nostra pratica di cammino avrà una fine.
È utile osservare come stiamo, come sta il corpo, la mente qual è il nostro stato d’animo, quali intuizioni possono essere arrivate. Magari ricordare alcuni momenti di connessione con la natura, se ne abbiamo l’abitudine, tenere anche un diario delle nostre gite, delle nostre escursioni, e magari chiudere con un momento di gratitudine e apprezzamento condividendo il merito non soltanto con noi stessi, ma anche con le persone che hanno camminato con noi in quella giornata, con le montagne, le piante, gli animali.
Buona pratica. Buon cammino.