Stare da soli è un’arte e come tutte le arti si può avere una vocazione, un’inclinazione, una propensione; allo stesso tempo anche un’incapacità. Come tutte le arti può essere imparata, allenata, affinata. Senza dubbio la meditazione è un’alleata importante per imparare non solo a stare soli ma ad apprezzare la solitudine come un tempo unico e ineguagliabile per conoscere e fare amicizia con se stessi.
Non esiste tradizione filosofica, spirituale o religiosa che non consideri la solitudine come strumento per un’accurata ricerca e conoscenza di se stessi. La solitudine è una condizione complessa per l’essere umano che non può essere spiegata ma di cui è necessario fare esperienza. Sarebbe infatti impossibile catturarne un’unica definizione, questo perché la solitudine è prima di tutto un’esperienza. Include una vasta gamma di esperienze più o meno piacevoli che vanno dall’isolamento e l’alienazione, a esperienze mistiche di estasi dell’ascetismo. In questo blog accenno solo alcuni semplici aspetti, che possano incoraggiarci a sperimentare cos’è per noi e la solitudine e la relazione che abbiamo.
Amicizia nel nostro cuscino di meditazione
In molti si avvicinano alla meditazione proprio alla ricerca di una dimensione di ricca e piena solitudine. Il momento infatti in cui sediamo nel nostro cuscino di meditazione e chiudiamo gli occhi, stiamo di fatto coltivando un momento di solitudine e soprattutto una disponibilità a stare con qualsiasi emozione possa arrivare. La pratica è questa disponibilità a fare amicizia con noi stessi, intessendo una delicata relazione anche con le parti che meno amiamo. “Bisogna riservarsi un retrobottega tutto nostro, del tutto indipendente, nel quale stabilire la nostra vera libertà, il nostro principale ritiro e la nostra solitudine. Là noi dobbiamo intrattenerci abitualmente con noi stessi, e tanto privatamente che nessuna conversazione o comunicazione con altri vi trovi luogo; ivi discorrere e ridere come se fossimo senza moglie, senza figli e senza sostanza, senza seguito e senza servitori, affinché, quando verrà il momento di perderli, non ci riesca nuovo il farne a meno”.
Questa frase rammenta di come la solitudine debba essere coltivata come un’abitudine, un addestramento necessario per potere poi stare con gli altri. E come la mindfulness può supportarci nella coltivazione della solitudine?
- La pratica ci insegna a rallentare che è un preliminare per la solitudine. O meglio, ci allena a riconoscere il nostro personalissimo ritmo e a poterlo mantenere anche in presenza di altri, anche alla velocità di altri.
- Quando iniziamo a praticare, chiudiamo gli occhi impariamo a stare soli. Soprattutto impariamo a fare amicizia con i nostri pensieri, le nostre emozioni; impariamo a riconoscere la nostra reattività, i momenti di dubbio, di attaccamento, di confusione. Li riconosciamo come una parte di noi da cui non fuggire.
- Nel non fuggire, nel silenzio della nostra solitudine scopriamo qualcosa di potente dentro di noi; qualcosa di possibile: un desiderio, una direzione che vogliamo dare alla nostra vita, qualcosa che è così importante per cui, senza bisogno di dirlo a nessuno – anzi proprio perché non lo diciamo a nessuno – diventa una sorta di promessa e quella promessa sarà l’energia che alimenterà la nostra disciplina.
Ecco che la meditazione, diventa per eccellenza quello spazio in cui non c’è nient’altro che dobbiamo fare, nessuna persona che dobbiamo diventare, nessun luogo in cui andare. La meditazione diventa una porte di accesso a quella solitudine piena e autentica.
Solitudine come fuga
È importante però non esaltare in modo indiscusso la solitudine senza tenere in considerazione come per qualcuno la solitudine sia temuta e associata a tristezza e malinconia. Gli anni della pandemia ce lo hanno mostrato con un’indiscussa chiarezza e ancora oggi vediamo i risultati di un’isolamento che ha portato in alcuni casi a storie di depressione, alienazione. C’è una grossa differenza però tra il sentirsi soli e essere soli. Tante volte la prima condizione influenza quanto poco vorremo trovarci da soli. La solitudine allora non è per tutti? Credo che a maggior ragione sia utile rammentare che la solitudine come arte, può essere allenata, e la meditazione che viene spesso descritta dalla tradizione come un addestramento, ci allena a avere un rapporto sano e ricco con la solitudine.
In altre situazioni la solitudine può essere cercata come fuga da qualcuno o qualcosa. Di per sé non c’è nulla di sbagliato nell’allontanarci da ciò che ci crea sofferenza; lo trovo anzi piuttosto naturale. Ma se non portiamo consapevolezza, indagine e saggezza, questa solitudine rischia di essere inutile. Infatti possiamo trascorrere delle ore, dei giorni da soli senza essere in contatto con noi stessi. La meditazione di consapevolezza invita questo contatto, e invece di scappare ci incoraggia a stare. Mi viene in mente la storia del monaco che aveva scelto di meditare in un luogo isolato e così si ritira su una barca al centro di un lago. Mentre è assorto nel più totale silenzio, la sua barca viene urtata da un’altra. Il monaco apre gli occhi pieno di rabbia e insofferenza si mette a urlare contro chiunque abbia disturbato la sua solitudine. Si accorge quindi che non c’è nessuno dentro la barca, che piuttosto è tutto nella sua mente e proprio lì doveva portare pace. Ecco che la solitudine da sola non basta se non è associata alla consapevolezza e comprensione.
Essere da soli insieme
Quando ero piccola mia mamma diceva che ero la migliore amica di me stessa. Non voleva dire che non avevo amiche, ma riconosceva quanto preferissi pomeriggi da sola riuscendo a farmi buona compagnia. Purtroppo non sono sempre stata così saggia, e riconosco amicizie e relazioni che invece di proteggere la mia solitudine e autenticità l’hanno messa in crisi finendo per allontanarmi da me stessa. Può succedere che la compagnia di altre persone possa essere una distrazione dal contatto sincero con noi stessi. La solitudine allena anche a vivere in società in modo autentico. Questo vale sul lavoro, in famiglia, nelle relazioni di amicizia e in quelle romantiche. Molto spesso infatti, quando non ci prendiamo cura dello spazio personale rischiamo di dimenticare chi siamo, cosa vogliamo e di vivere alla velocità e modalità degli altri. Rainer Maria Rilke a questo proposito scrive “Credo che sia questo il compito maggiore di un legame fra due persone: che ciascuno sia a guardia della solitudine dell’altro. Perché, se è nella natura dell’indifferenza e della folla non apprezzare la solitudine, l’amore e l’amicizia ci sono proprio allo scopo di offrire continuamente la possibilità di solitudine. (…) L’amore consiste in questo, che due solitudini si proteggono a vicenda, si toccano, si salutano”.
L’abitudine a stare in solitudine, ci permette nel tempo di mantenere questo radicamento in mezzo alla gente come dice bene il maestro Thich Nhat Hanh. “Possiamo essere soli e non lasciarci trascinare via dalla folla anche se ci troviamo al mercato: siamo sempre noi stessi. Siamo noi stessi anche se ci troviamo in una discussione di gruppo nel mezzo di un’ondata di emozione collettiva: continuiamo a dimorare sicuri sul terreno solido della nostra isola”.
Anche nella meditazione di altre tradizione, gli altri possono essere un supporto alla nostra solitudine invece che una distrazione. Il sangha, la comunità con cui meditiamo ci ricorda l’importanza di cercare spazi di solitudine, ci ispira, ci incoraggia in modo silenzioso, senza bisogno di essere esplicito ma con la forza dell’esempio e della presenza. Come dice Thich Nhat Hanh “La tua comunità, il tuo sangha, è il tuo sostegno. Quando vedi qualcuno che agisce in consapevolezza, cha parla con affetto del proprio lavoro di buona voglia, quella persona ti ricorda di tornare alla tua fonte personale di consapevolezza, ossia la solitudine”.
Fare di noi un’isola
Come ho già scritto in un altro blog (Fare di noi un’isola), non necessariamente questi momenti di solitudine devono essere momenti di meditazione. Possiamo essere soli e in contatto con noi stessi quando curiamo una pianta, puliamo la verdura, andiamo a camminare, scriviamo. È utile rallentare al massimo queste attività in modo da potere tenere traccia delle nostre sensazioni, dei nostri pensieri e delle nostre emozioni. Possiamo coltivare la solitudine senza bisogno di raggiungere spiagge deserte o montagne solitarie. A questo proposito possiamo domandarci cosa stiamo veramente cercando in quei momenti di solitudine? Ogni giorno possiamo praticare il nostro rituale della solitudine finché possa diventare anche un modo di vivere. Nel tempo scopriremo come la solitudine possa essere una porta che conduce all’autonomia del pensiero, all’autenticità, alla contemplazione della vita e delle sue domande più profonde, all’ispirazione e la creatività, alla cura del nostro mondo interiore. Chiudo con un’ultima citazione di Michael Montaigne che ci rammenta come la solitudine sia una condizione umana naturale che non dobbiamo temere dal momento che è proprio quella che ci permette di imparare a conoscere noi stessi e il mondo: “Abbiamo un’anima capace di ripiegarsi in sé stessa; essa può farsi compagnia; ha i mezzi per assalire e per difendere; per ricevere e per donare; non dobbiamo temere di annoiarci in questa solitudine”.