Ero sempre stata attratta dai ritiri di meditazione. Ero affascinata da chi trascorreva settimane o mesi in ritiro e magari anche in silenzio. Mi sembrava qualcosa di così distante e difficile da realizzare. Soprattutto mi sembrava mi occorresse il permesso della mia famiglia, un’autorizzazione ad allontanarmi e trascorrere qualche giorno solo per me. Credevo anche che servisse una particolare vocazione o anni di pratica.
La prima volta che ho partecipato a un ritiro di meditazione ero preoccupatissima di quello che sarebbe successo al termine. Ho salutato mio marito che mi accompagnava in macchina e nel mio cuore ho temuto che non sarei stata la stessa persona al termine di quel periodo. Mi domandavo “e se la meditazione mi trasforma al punto da cambiare l’amore per mio marito?”
Sorrido mentre scrivo e rivivo quelle preoccupazioni. Credevo inoltre di non potere allontanarmi in modo da essere disponibile per la mia famiglia. Credevo che si trattasse di senso del dovere, di sentirmi responsabile per gli altri.
Riabbracciare mio marito è stato bellissimo ed è così tutte le volte al termine di un ritiro. Però avevo scoperto uno spazio nuovo: potevo prendermi cura di me e permettere ai miei cari di supportarmi. Infatti, non mi ero accorta che allo stesso modo in cui sono felice di occuparmi delle persone accanto a me, allo stesso modo permettevo ai miei familiari di fare lo stesso. Avevo anche dovuto lasciare andare questo sentirmi necessaria e così facendo avevo ricevuto una lezione di umiltà: il mondo andava avanti a prescindere dalla mia presenza.
Le giornate in ritiro rappresentano uno spazio indisturbato in cui rallentare e dedicarci a riaccordare quello strumento musicale che siamo noi stessi. Ricordare il suono, ritrovare il corpo, il respiro, fare pace con i pensieri.
Tutte le tradizioni spirituali includono il tempo di ritirarsi in silenzio o no. Quando ero ragazzina i salesiani organizzavano un ritiro a Colle San Rizzo un posto incredibile in provincia di Messina da cui si riusciva a vedere la Calabria. Non eravamo in silenzio ma le nostre giornate erano ritmate dagli orari della preghiera, del pasto, del cammino, della chiacchiera tra i partecipanti. Erano delle giornate bellissime.
Similmente il ritmo delle giornate durante un ritiro resta sempre uguale. Non ci si preoccupa troppo di quello che succederà, di cosa preparare per il pranzo o di cosa indossare il giorno dopo. La possibilità di non avere distrazioni di questo tipo, libera uno spazio per concentrarsi su di sé. C’è un’altra cosa che si lascia fuori della porta, a volte la più difficile da lasciare andare. Sono le etichette su chi siamo, cosa facciamo, la moglie, la figlia, la sorella, l’insegnante. Mi vengono in mente le parole di Pema Chodron che parla proprio dell’abbandonare in ritiro le etichette che ci diamo o che altri ci danno e proprio in questo abbandono, trovare sollievo.
“Chi ero senza le conferme esterne, senza le etichette? (…) Il vedere la clamorosa differenza nei modi in cui venivo percepita ha spezzato quell’attaccamento profondo che avevo nei confronti della fama e dell’infamia, della perdita e del guadagno, della speranza e della paura riguardo alla mia identità. In cima alla montagna nel centro dei ritiri non ero nessuno. Giù dalla montagna, al corso, ero un’ospite speciale degna di rispetto. Ma si trattava semplicemente di etichette mutevoli e ambigue. In linea di principio non potrei essere catalogata con esattezza o etichettata in modo definitivo. In quel momento avevo davvero provato sollievo“.