Il nome che portiamo porta con sé sempre una piccola storia che ci è stata raccontata da bambini. Da sempre ho sentito che il mio nome, Anna, è stato scelto dai miei genitori perché gli piaceva. Mentre le mie sorelle, hanno ereditato il nome delle mie nonne, Francesca e Luisa e anche di sue santi importanti.
Sant’Anna per avere dato alla luce Maria, la Madonna è considerata la madre per eccellenza, e per questo la protettrice delle partorienti. Per questo a lungo ho pensato che tra questo, e le ossa larghe del bacino che mi ritrovo, sarei stata in una botte di ferro nel momento in cui avrei avuto dei bambini. Ma poi i figli non sono arrivati.
E la Mindfulness era già nella mia vita quando mi sono dovuta confrontare con questo fatto e con tante le aspettative della vita. Tantissime. Non c’è nulla di sbagliato nel sognare; ma quello che distingue un sano desiderio da un’aspettativa, è l’intensità con cui la vogliamo nella nostra vita. Stringiamo la mano con forza pensando di averla già in pugno e non accettando alternative, o teniamo la mano aperta semplicemente sperando il meglio e accogliendo quello che verrà? Ho riflettuto che la maternità è tra le aspettative più grandi dell’esistenza umana o quanto meno del nascere donna. Sì perché, sia che da bambine si sia giocato o meno a fare la mammina, non c’è dubbio che il corpo della donna si porta dietro l’intuizione, la promessa silenziosa di una creazione che ogni mese viene fatta e infranta.
La Mindfulness mi ha ricordato che potevo stare con quello che c’era, anche quando quello che c’era non mi piaceva, infatti accogliere quello che la vita ci dà non vuol dire sempre che ci debba piacere; smettere di fare resistenza può riservare delle sorprese. Mi viene in mente la frase di Viktor Frankl “Se non è in tuo potere cambiare una situazione che ti crea dolore, potrai sempre escogitare l’attitudine con la quale affrontare questa sofferenza.” Ma come si fa? Come si fa a non confondere l’accogliere le difficoltà con la rassegnazione?
Scegliere la gentilezza
Per me è stato importante: scegliere la gentilezza, una modalità di tenerezza verso tutte le emozioni e i pensieri che mi hanno attraversato e che mi attraversano ancora. Proprio come recitano i primi versi di una poesia di Naomi Shihab Nye quando dicono “Prima di sapere cosa sia veramente la gentilezza devi perdere delle cose”. Ho scelto la curiosità verso quello che stava succedendo veramente nella mia vita; e così ho anche scelto il coraggio di spostare lo sguardo da quello che non avevo avuto, verso tutto quello che potevo essere, e le possibilità sono davvero infinite. Non avere figli, e parlarne, non è un tabù. Ma per qualcuno può essere estremamente doloroso o imbarazzante. È un argomento che ci ricorda la nostra vulnerabilità. La gentilezza e la curiosità deve essere anche rivolta verso chi fa delle scelte diverse dalle nostre. Magari possiamo darci la possibilità di non giudicare e di ammettere che nell’infinito mondo dell’esistenza umana, ci sono infiniti modi di sentire e vivere un’esperienza; e a noi è concesso solo di vivere la nostra. Nella festa che celebra la mamma, mi piace condividere due riflessioni che sento molto vive.
Posso essere materna senza essere madre.
È possibile esercitare il mio senso materno tutte le volte che mi prendo cura in modo incondizionato di qualcuno o qualcosa. La maternità è l’atto creativo per eccellenza. E ogni volta che coltivo questa creatività con sincero amore, sto accedendo a quel misterioso potere che mi è stato dato. Ci sono donne che hanno fatto la differenza proprio per avere esercitato questo potere. Alcune dedicandosi con passione a progetti che ritenevano giusti: scienziate, femministe, pacifiste, politiche; altre invece dedicando la loro vita ai bambini come Madre Teresa, e magari Mary Poppins! Senza bisogno di guardare ai grandi personaggi, sono certa che tutti abbiamo dei nomi di non-madri che hanno fatto la differenza nella nostra vita. Penso a zia Ninetta, la mia mitica baby sitter, o a Gioconda, un’amica di famiglia che mi ha ispirato il coraggio di abbandonare i braccioli e iniziare a nuotare, o alle Cappuccinelle, delle suore di clausura che da anni, come delle vere madri, ascoltano pensieri e preoccupazioni della mia famiglia.
Sono abbastanza: vado già molto bene così come sono
E di questo devo rendere grazie alla mia mamma che nel momento più sconfortante mi ha ricordato che ero abbastanza. Proprio come quando sono nata, dopo avermi contato le dita dei piedi e delle mani avrà pensato che ero intera, che ero viva e perfetta. Così dopo tutti questi anni continua a guardarmi con quegli occhi di meraviglia; sperando il meglio per me, senza desiderare che io sia più magra, più intelligente, più mamma. Di questo le sono grata. Ci sono infinite cose che posso dire della mia mamma, come della grazia con cui ha accolto la vita nelle sue varie espressioni e fasi. Ma oggi le sono grata per questa semplice, ma profondissima qualità di avermi sempre fatto sentire intera, viva e più che abbastanza.
“Alla fine solo tre cose contano:
quanto hai amato,
quanto gentilmente hai vissuto,
e con quanta grazia hai lasciato andare”.